“Satanisti, Satanisti: è mai possibile che non sappiate dire altro?!
Cazzo-oh!”.
Ma che cavolo gli pigliava a tutti?!
Erano scimuniti!
Tutti quanti.
Tranne lui, ovviamente.
Lui proprio non se la beveva quella storia.
Pasquale Iodice non era quel genere di poliziotto così impressionabile da tirar subito dentro satanismo, stregoneria e pedicure!
“Ma Commissario!”, protestò Aprile. “Un piede umano, vicino a una Chiesa sconsacrata da quarant’anni: due più due fa quattro, o no?!”
Iodice lo fissò in tralice per qualche secondo, come se gli si fossero aperte davanti le porte dell’inferno: “Quattro?!”, alzò un sopracciglio. “E da quando hai imparato a contare tu?!”, sbottò con ironia sprezzante.
Aprile abbassò lo sguardo.
Poi si rianimò come un trenino a corda e cercò di protestare: “Ma…”
“Ho detto no.
Quando mai si sono visti i Satanisti a Caserta?!
Magari i vegetariani, ma a quelli basta dare un paio di zucchine…”
Zucchine, già. Alla scapece.
Origano e aceto.
Quant’è che non ne mangiava?!
Sei mesi, magari un anno.
Da quando si era separato pure da Mara, in ogni caso. Nelle pizzerie in cui s’era ridotto a mangiare la sera, al massimo gli potevano servire un kebab, possino ucciderli tutti, loro e chi ce li ha mandati!
Sospirò.
Lasciò andare il “pensiero felice” delle zucchine e dell’aceto, che quasi sentiva pizzicargli le narici, e decise di concentrarsi sul lavoro.
Il corpo …ehm… il piede, era stato ritrovato il martedì precedente in un campo vicino all’ex Chiesa di S. Eusebio, nelle campagne di San Nicola la Strada. L’aveva raccolto un agricoltore di passaggio che, trovandoselo in mezzo alla strada, aveva pensato a un gatto morto.
Uno scempio perpetrato con metodo.
L’arto era stato troncato di netto, con una lama dentellata, come se l’avessero segato via.
“Chi l´ha uccisa ha voluto farci vedere di cosa è capace, sembra un’apertura di partita, una sfida”, aveva detto il Questore, quando l’aveva convocato insieme agli altri della Mobile in una riunione strategica dove – a parte spaccargli i cosiddetti con ipotesi strampalate di serial killer e satanisti – non era venuto fuori niente.
Buio sulla identità della vittima. Buio sull’età.
Si stava aspettando il DNA per cercare, quantomeno, di avere un riscontro nell’Afis, ma – per il momento – si sapeva soltanto che si trattava di un 44, sinistro, con tre unghie su cinque laccate di rosso.
“Minchia, doveva essere proprio una cavallona!”, aveva esclamato Iodice, attirandosi l’occhiataccia del Questore.
Così, mollando una scoreggia per rafforzare il concetto, era uscito dalla stanza, con la scusa di andare in bagno. “Lasciamo i bimbi a giocare a guardie e ladri – aveva detto ad Aprile, che gli era venuto dietro fedele come un barboncino – a noi tocca il lavoro serio!”.
Solo che ci stavano lavorando su da una settimana, e ancora non era venuto fuori niente.
Non un testimone, non una traccia forense. Nemmeno una corrispondenza negli archivi informatici delle impronte digitali e delle persone scomparse, dove – negli ultimi quindici giorni – erano annotati solo i nomi di due adolescenti in fuga d’amore e un geometra di 54 anni, che era uscito per delle misurazioni su un cantiere e non era più rientrato, come aveva riferito la moglie in denuncia.
Eppure, l´orrore che aveva concepito il suo assassino faceva cantilenare agli uomini della squadra Mobile parole che suonavano come un nero presagio, e ci si aspettava di ritrovare da un momento all’altro gli altri pezzi del puzzle.
Una mano in un tombino, una gamba in un parco, la testa in una fontana.
Non era ancora successo, ma i sensi erano all’erta.
Se quello era il disegno del killer, probabilmente ancora non si era deciso a fare la seconda mossa. Così i giorni erano passati, e anche la tensione andava scemando.
Iodice alzò la testa dal fascicolo, si massaggiò il mento e si grattò il petto peloso, raschiando attraverso i bottoni di una camicia lasciata aperta sul davanti. “Che si fa?”, aveva chiesto infine ad Aprile.
“Caffè?”, aveva risposto pronto il Sovrintendente.
“Offri tu?!”
Aprile aveva annuito malvolentieri.
“Ottima idea!”, era scattato in piedi il Commissario, raccogliendo chiavi e sigarette dalla scrivania. Un’altra grattata ed era pronto.
Arrivarono alla guardiola ciondolando, quando – dietro ai vetri spessi – furono fermati da Di Costanzo: “Ehm… Commissario, state uscendo?”, chiese il piantone, lasciando la sua postazione per venirgli incontro.
“Noooo, non vedi che sto facendo ginnastica?
Mi sgranchisco le gambe!”, disse mimando una flessione con le ginocchia arrugginite, mentre la pancia prominente gli ballonzolò davanti.
Poi riprese stizzito: “Di Costà, ma sei ottuso?!
Certo che sto uscendo: abbiamo una chiamata di emergenza!”, strizzò l’occhio ad Aprile.
“Ma, veramente – provò ad insistere il piantone – di là ci sarebbe il fratello del Sindaco… ha detto che ha una cosa urgente da riferirvi…”
“Urgente, urgente!
Tutti vanno di pressa!
Ti ha detto anche di che cosa si tratta?”, chiese a Di Costanzo, vent’anni di poliziotto, con i capelli biondi separati da una scriminatura di lato, e la faccia butterata dall’acne, che ancora gli affiorava sulle guance come spuma densa da un bicchiere di prosecco.
“No”, rispose imbarazzato l’agente.
“E allora lo vedi che può aspettare?!”, decretò inforcando l’uscita.
“Vedi Aprile – aveva detto Iodice avviandosi verso il Caffè Italia, dall’altro lato di Piazza Vanvitelli – tu non te la devi prendere a male, ma un Capo ha il dovere di tenere sotto pressione il sottoposto.
È un po’ come con le donne: stare a pecora, un po’ le stizza, perché si sentono umiliate, e un po’ le eccita, perché godono a essere maltrattate.
Ora, non voglio dire che ti devi mettere pure tu a novanta gradi davanti a me o al Questore, ma, insomma: adesso sei sotto e devi prenderlo nel sedere, tu e Di Costanzo”, rise, sventolando due dita a caso.
Raggiunsero ciondolando il marciapiedi di fronte. Il bar era spoglio. Sulla porta a vetri, sotto l’insegna al neon, erano affissi i manifesti di un Circo e di un concerto di musica neomelodica. La cassa era posizionata su un banchetto di fronte al bancone. Su un altro tavolino c’erano un posacenere e le tazze sporche di due caffè.
Nel locale – in compagnia di una fila di bottiglie di liquore sulla parete a specchio – non c’erano che un ciccione alla cassa e un vecchio basso e smilzo dietro al bancone, che prima di chiedergli cosa prendessero, dovette sciogliersi un po’ dal suo torpore mattutino.
“Ah, e non dimenticarti – riprese Iodice dopo avere ordinato due caffè – un bello schiaffetto sul culo. Fa sempre la sua bella figura!”, grugnì.
Poi scoppiò a ridere.
La lezione teorico-pratica di tecnica seduttiva non era ancora terminata, che l’atmosfera sacra venne interrotta dallo squillo impertinente del cellulare, accompagnato da una smorfia spazientita del Commissario.
Era l’ufficio.
Rispose con un tono leggermente alterato: “Che c’è?!
Ho detto che sono impegnato…”
“Ma… ecco… veramente il Questore ha detto di dirvi…”, riconobbe subito la voce di Di Costanzo, lento come una lumaca con la gonorrea.
“Vabbè, spara!”, sbottò stizzito.
“Spara?
Beh, io… veramente… ho già completato le mie ore annuali di addestramento al tiro…”, fece notare l’agente.
Iodice allargò le braccia esasperato: “Guagliò, tu sì scem’!”.
Poi, dopo una breve pausa: “Mi vuoi dire che vuole il Questore?!”, sbottò, che per poco si rovesciava il caffè sulla camicia.
E già che erano almeno due settimane che doveva lavarla, ma avrebbe voluto almeno terminarci la giornata.
Senza più tanti preamboli, perciò, Di Costanzo spiegò che in mattinata erano finalmente arrivati gli esiti dell’esame del DNA sul piede e che…
“E che?!”, chiese stizzito il Commissario.
“E che appartiene ad una persona di sesso maschile”, buttò fuori tutto.
“Come maschile?!
Ma, e lo smalto rosso sulle unghie?!”, insistette Iodice.
“Non so che dirvi – rispose il piantone – a me il Questore ha comandato solo di comunicarvi questo”, e mise giù.
Cristo!
“Un uomo con le unghie laccate di rosso… non c’è più religione!”, sbottò il Commissario. “Dove andremo a finire di questo passo?
Tutti finocchi!
Giocheremo tutti quanti ad acchiapparello nei bagni dei Cinema”, continuò a sbraitare mentre Aprile lo stava fissando come se fosse appena atterrato un marziano e – allora – dovette metterlo a parte delle ultime scoperte.
“Quindi era un trans!”, suggerì il Sovrintendente.
Un trans?!
“Già un trans!”, convenne Iodice.
O una trans… insomma, quella roba là. Non che lui fosse un esperto della materia, ma ne aveva sentito parlare… e beh, insomma, alla fine era pur sempre una pista da seguire!
“E dove battono i trans, tu che sei pratico?!”, chiese ad Aprile in tono canzonatorio.
Il Sovrintendente lo guardò di sottecchi: “Pratico?!
Quale pratico!
L’ho letto su Cronaca Vera!”, provò a giustificarsi.
“Eh… Cronaca Vera!
Cronaca del cul…” ma lasciò a metà la frase quando si accorse che il ciccione alla cassa li stava fissando e ascoltava tutto incuriosito.
“Lo sa che è un reato ascoltare informazioni relative a un indagine?!”, sbottò Iodice stizzito.
“Ma veramente più che di indagine, si parlava di culi…”, sorrise il barista.
“E saranno cul… ehm… cazzi nostri, no?!
Dai Aprile, paga i caffè che ce ne andiamo da questo bar di impiccioni, prima che lo faccio pure chiudere.
Pulite il bagno, piuttosto, che fa schifo pure agli stronzi!”, urlò uscendo.
Rientrarono in Questura e – mentre spedì Aprile in archivio a verificare se ci fosse voce di qualche transessuale di cui era stata denunciata la scomparsa – venne a sapere che il Questore li voleva tutti nel suo ufficio, alle cinque, per fare il punto della situazione.
Come se non avesse altro da fare?!
Che si credeva il Questore, che un ufficio si manda avanti da una scrivania?!
Olio di gomito ci vuole!
Altro che riunioni.
“Ti si debbono consumare le suole e le natiche, andando avanti e indietro per la città”, sbottò irritato inforcando l’ingresso del vecchio palazzo.
Superò la guardiola, Di Costanzo non c’era.
“Bene, ogni volta mi sembra di passare la dogana!”, sospirò soddisfatto Iodice.
Ma il sorriso gli si spense appena svoltato il corridoio: l’agente lo stava aspettando sulla porta del suo ufficio, assieme a un tipo rubizzo e tarchiatello, con un’assurda camicia a rigoni zuppa di sudore.
Quando lo vide, Di Costanzo allargò le braccia come a significare: io non c’entro nulla, è voluto venire lui!
Il Commissario lo guardò storto, prima lui, poi il personaggio al suo fianco.
Sembrava uno scassinatore.
Chissà che voleva…
L’agente cercò di giustificarsi: “Il signore – disse – ha insistito per parlarvi, è il…”
“Sono il Dottor Loffredo – si intromise l’uomo con tono insofferente – sono il fratello del Sindaco, e sono due ore che la sto aspettando.
È mai possibile che un onesto cittadino non…”
Il Commissario alzò un mano: “Uè!
Calmiamoci, eh?!”, sbottò, ristabilendo subito le gerarchie. “Lei è il fratello del Sindaco, e io sono il cugino dell’Assessore, va bene?
E poi per me può benissimo essere il figlio del Papa: qua non si fanno favoritismi!”
Loffredo strabuzzò gli occhi, poi lo fissò sdegnato, come se gli avessero messo una cacca sotto al naso. “Ma veramente io volevo solo…”
“Eh, lo so che cosa voleva!
Voleva saltare la fila… ma c’è una procedura qui dentro da rispettare.
E poi non lo vede che casino che c’è in questo momento?!
Siamo in piena emergenza!
Abbiamo in corso un’indagine per omicidio, mica barzellette sui Carabinieri”, strepitò, indicando l’andirivieni di sbirri alle sue spalle. Poi sfilò il pacchetto da una tasca e si accese una sigaretta.
“Ma, ma anche la mia è una emergenza!”, azzardò l’uomo con una smorfia di amarezza.
Iodice lo guardò sdegnato: “Ma che dice!
Cosa può esserci di così urgente da non potere aspettare qualche giorno…”, rispose soffiandogli il fumo sopra la pelata lucida come un compact-disc.
“Ma se sono due settimane, che mi sballottano da un ufficio all’altro, e, intanto, quelli continuano impunemente con la loro attività di prostituzione…”, chinò gli occhi deluso.
Prostituzione?!
“Prostituzione?!”, il Commissario tossì fuori il fumo che gli era andato di traverso.
“Lo vede che non le hanno detto niente!
E poi mi dicevano di stare tranquillo…”, si lamentò mogio Loffredo.
“No, beh, vede – riprese fiato – gli uffici sono tanti… ma prego, si accomodi…”, lo introdusse sorridente nella sua stanza.
Poi si voltò: “Di Costanzo, puoi andare.
Al signore ci penso io…”, sorrise e richiuse velocemente la porta alle sue spalle.
Fece il giro della scrivania e si sedette sulla sua vecchia poltrona in similpelle nera, riempiendola completamente. “Allora, dov’è questo bordell… ehm, dov’è il problema?”, chiese interessato all’uomo, che – accomodatosi su una sedia di legno di fronte – lo stava fissando sorpreso e incuriosito da come il Commissario aveva improvvisamente preso a cuore la sua vicenda. Decise che l’importante, in ogni caso, era chiudere quell’incresciosa questione, e cominciò dal principio.
“Una indecenza Commissario.
Una vera indecenza!”, esordì con aria grave. “Il nostro, prima, era un palazzo rispettabilissimo: tutte famiglie oneste, lavoratrici… professionisti, mamme di famiglia e molti, molti bambini.
Poi, poi…”, il tono si fece lugubre. “Poi sono arrivate queste due signorine!”
Alla parola signorine, Iodice fece un lungo respiro, allargando entrambe le narici: “Siiii?!”, chiese impaziente. Era molto sensibile a certi argomenti.
“Beh, due ragazze sudamericane… quando hanno fittato l’appartamento, la proprietaria – la vedova Brizzi – ci assicurò che erano due ottime personcine, in Italia da anni, e che lavoravano a ore”.
“E invece?!”, chiese impaziente il Commissario.
“E invece, altro che colf!
Prostitute, ad ore… a tutte le ore, dottore”, precisò Loffredo.
“Mi deve credere: non ne possiamo più!
Gente che va e viene, dalla mattina alla notte più nera, che bussa, che urla, che schiamazza.
Che fa la pipì nell’androne…”, si portò una mano alle labbra piccato.
Beh e quello – dopo – capita sempre, annuì Iodice.
“E poi – continuò irritato l’uomo – urla, gemiti, rantoli… tutta la notte. Noi abitiamo di fronte, caro Commissario, e non riusciamo più a chiudere occhio.
Là dentro – si avvicinò al bordo della scrivania – fanno il bondage… il sadomasochismo, insomma.
Quando si sentono quei gemiti, mia moglie si alza, e non dorme più…”, sospirò amaro.
Prova a dargli pure tu una bottarella – pensò Iodice – vedi che dormite che si fa la signora. Quella è l’astinenza, che le ruba il sonno, altroché!
Ma si limitò di nuovo ad annuire.
“E come sono, come sono queste ragazze?!”, chiese sempre più su di giri.
“Beh, io le ho viste solo due volte… belle ragazze, devo ammettere.
Alte, carnagione olivastra, capelli lunghi…”
“Ok, ho capito: mi dia l’indirizzo!”, decretò Iodice, scattando all’in piedi. Un sorriso gli tagliava in due il faccione tondo e malrasato.
Perchè, ci sono tanti vantaggi nel fare il poliziotto, ma uno è sicuramente quello di scopare gratis!
Loffredo – che, dopo tanto peregrinare da un ufficio all’altro, di certo non si aspettava tutta questa improvvisa solerzia da parte delle forze dell’ordine – rimase spiazzato per qualche secondo. Poi balbettò: “Via delle Ginestre dieci… interno quattro”.
Iodice si tirò su il cavallo dei calzoni e si riavviò i pochi capelli all’indietro: “Bene signor Loffredo.
La ringrazio: lei è l’esempio del cittadino onesto a cui tutti dovrebbero aspirare”, strizzò l’occhio e, presolo per un braccio, lo trascinò di peso fuori dell’ufficio. “Ci metteremo subito in moto, stia tranquillo”, disse ancora. “E mi saluti il Sindaco!”, concluse richiudendo.
Tornò saltellando dietro la scrivania e afferrò il telefono: “Aprile!
Che cavolo fai?!
Muoviti, che dobbiamo andare!”, strillò nella cornetta a mezz’aria.
“Ma io veramente sarei in archivio… ho trovato almeno due persone che corrispondono alla descrizione”, provò a giustificarsi il sottoposto.
“C’è tempo per quello – lo interruppe il Commissario – adesso abbiamo un’altra pista da seguire…”.
“Davvero?!”
“Sì, ma dobbiamo fare in fretta!”, rispose con fare agitato, sfiorando l’erezione che iniziava a fargli capolino tra i calzoni di fustagno.
Si stropicciò l’argomento e attaccò il telefono.
Aprile – risalite in fretta due rampe di scale – si fece trovare pronto in auto, nello spiazzo di fronte la Questura col motore acceso. Iodice si catapultò sul sedile passeggero. “E metti la sirena!”, sbottò, quando la macchina ebbe imboccato Corso Giannone contromano.
“Ma, ma allora siamo proprio sulla pista giusta?!
Che forza che siete Commissario!”, esclamò Aprile spingendo un paio di bottoni e attivando luci e sirene. Scansò un passeggino e un paio di vecchine, ma alla fine riuscì a rientrare nella corsia di marcia.
Arrivati in prossimità di via delle Ginestre, Iodice gli prese un braccio. “Ok, spegni tutto – disse facendogli un occhiolino – a questo punto non dobbiamo dare nell’occhio”.
“Ma è l’assassino?
Si nasconde qui?!”, chiese Aprile strabuzzando gli occhi.
Iodice fece una pausa: “Non lo so ancora – mentì, mascherando la bugia dietro un tono grave – ma mi hanno detto che c’è uno strano movimento lì dentro… magari non è nulla, ma vale la pena controllare”.
Aprile annuì.
Il Commissario gli comandò di superare di poco il numero dieci e di affrettarsi a parcheggiare dietro un camion che stava scaricando detersivi in un minimarket.
“Allora – lo mise a parte del piano – io vado in avanscoperta. Tu mi aspetti qua mezz’ora…”, poi rifletté sul fatto che erano almeno due mesi che non andava con una donna. “Facciamo un’ora”, decretò.
Aprile lo guardò perplesso: “E io che faccio un’ora intera qua?!”, piagnucolò.
“E tu aspetti!
Che, tieni le emorroidi che non puoi stare in macchina un’oretta?!
Alle tre in punto, sali.
Ma non suonare!
Sfonda la porta, modello sbirro americano”, gli strizzò l’occhio.
Gli piaceva l’azione!
E poi faceva sempre scena.
Aprile annuì malvolentieri, mentre il Commissario si infilò gli occhiali da sole Rayban verdi e scese dalla macchina. Percorse a ritroso la strada fino al palazzo di Loffredo e delle signorine sudamericane, ma salì al secondo piano senza suonare e senza prendere l’ascensore.
Si piazzò a gambe larghe di fronte all’ingresso e suonò il campanello.
La porta si aprì poco dopo: “Ammmoore!”, una ragazza alta e bella apparve sulla soglia. Tacchi vertiginosi, calze a rete nere e giarrettiere bianche di pizzo, mutandine nere, baby doll rosso, tette piccole, a punta, un nastrino rosso al collo e una medaglietta allacciata.
A Iodice scappò un filo di bava che asciugò lesto con una manica della giacca. Si sfilò gli occhiali e li infilò nel taschino. “Ciao!”, rispose tutto ringalluzzito.
Di solito non gli facevano quel genere di accoglienza.
“Chi ti ha dato meo indirizzo, gioia?”, chiese la ragazza con un pesante accenno spagnolo.
“Un amico!”, si affrettò a rispondere il Commissario.
“Che amigo, ammmoore?”, chiese ancora, sospettosa e prudente al tempo stesso.
“Gennaro!”, sparò.
Ci dovrà pure essere un Gennaro che se la scopa a questa, pensò fiducioso lo sbirro.
Invece no.
Tra Napoli e Caserta c’erano registrati duecentomila Gennaro, ma nessuno era mai stato in quell’appartamento.
“Chi Gennaro?
Io no conosce nigun Gennaro!”, stabilì nervosa la ragazza, con le labbra che tremavano leggermente.
A quel punto Iodice ruppe gli indugi, sfoderando il distintivo della Polizia: “Questo è Gennaro.
La riconosci la foto?!”, le mise lo stemma bianco e azzurro sotto al naso. “Forza – continuò con tono brusco – tutti fuori. Andiamo in Questura!
Siete tutti in arresto per sfruttamento della prostituzione”, rincarò.
La ragazza, da professionista navigata, gli gettò subito le braccia al collo: “Tesoro… ammmoore… viene, viene adentro!
Noi amici Polizia.
Polizia tutto gratis!”, ammiccò con fare puttanesco.
A quel punto, con un sorriso largo quanto un cocomero, Iodice entrò in casa.
Se ci fosse stato bisogno di fare il duro – magari di sbattere qualcuno in cella di sicurezza – se ne sarebbe parlato dopo. Adesso c’erano cose più importanti da fare.
E, se si sbrigava, riusciva anche a fare in tempo per la riunione col Questore alle cinque.
A parte un ingresso spazioso, il resto dell’appartamento era diviso piuttosto nettamente in una cucina, coperta da una tenda a cuoricini rossi e bianchi, due stanzette con dei letti matrimoniali sfatti e una più grande – in fondo alla casa – con una enorme croce rossa agganciata alla parete, da cui pendevano delle catene e dei lacci di cuoio. In un angolo c’era un armadio, dove facevano bella mostra di sé fruste a una, a due, a nove code. Quelle che gli sembrarono delle racchette da ping-pong e poi corde, pinze, candele.
Iodice fu spinto nella stanza quasi di peso, a colpi di tette.
“Io me chiamo Laila.
Te piace el amore estremo?”, chiese la ragazza strizzando l’occhio.
Iodice si alzò sulle punte: “Bella mia, io sono tutto estremo!”, sorrise.
Laila scoppiò in una risata.
Poi lo prese per mano: “Viene, spogliate… te faccio provare el paradiso e l’infierno a lo mismo tiempo!”, sospirò languida.
Iodice soffiò l’aria da entrambe le narici: “Cazzo, e chi se la scorda più questa giornata.
Finisce davvero che mi ci faccio l’abbonamento, qui dentro”, pensò sfilandosi giacca e camicia e arrotolandosi i calzoni attorno alle caviglie.
Se ne liberò scalciando selvaggiamente.
“Viene, mettete aquí”, gli disse ancora la ragazza.
Poi lo schiacciò alla croce rossa e con una mossa fulminea gli serrò entrambe le mani nelle fettucce di cuoio, richiudendole strettamente.
Iodice incuriosito, più che preoccupato, lasciò fare: “Nella vita bisogna provare di tutto!”, pensò.
“E adesso?!”, chiese quando fu bello e agganciato come un prosciutto di Parma.
“E adesso tu non rompe cazzo e aspetta qua!”, sbottò la ragazza. Il suo viso si era trasformato in una maschera tragica. Sculettò via, lasciandolo solo a frollare come un quarto di manzo.
“Laila, Laila!
Ma dove vai?!
Dobbiamo provare il paradiso, l’infierno… insomma, dobbiamo scopare!”, urlò Iodice sempre più indispettito.
Niente.
“Laila… Lailaaaa…
Brutta puttana!
Scioglimi di qua, altrimenti ti sbatto dentro per dieci anni, sporca che non sei altro!”, cominciò ad urlare strattonando le cinghie e la croce, che tuttavia rimaneva saldamente ancorata al muro.
Laila apparve sulla soglia di lì a un minuto. La seguiva una ragazza bionda, alta e anche lei in microtanga di seta blu e reggiseno a balconcino.
“Un policiotto?”, chiese all’amica.
Laila annuì.
“Està solo?”, chiese ancora.
Laila annuì di nuovo.
“Bien”.
Iodice, che non riusciva a staccare gli occhi dalla nuova entrata, fu rapito da un pensiero, che scacciò via lo spavento iniziale: “Ahhhhh, volete fare una cosa a tre!”, sorrise. “Bene, c’è carne per tutti!
Chiedete in giro… il Commissario Iodice si è sempre fatto valere per…”
La bionda si avvicinò saltellando sui tacchi e gli mollò uno schiaffo: “Muto!”, disse schiumando.
Iodice incassò lo schiaffo sorpreso e rimase in silenzio a guardare le due donne che confabulavano tra di loro. Aveva letto, da qualche parte, che nel sadomaso gli schiaffi erano all’ordine del giorno e decise di passarci sopra.
“E’ pur sempre un’esperienza…”, pensò.
Laila allora gli si avvicinò, sinuosa come una gatta su un tetto che scotta. “Chi te ha detto de noi?”, chiese. “Chi?!”, urlò.
Gli occhi erano rossi di collera e le vene sul collo pulsavano all’impazzata.
La “cosa a tre”, oramai, era fuori discussione.
“Ma chi si ricorda!”, piagnucolò Iodice. “Lo sa mezza città!
Oramai – se non sono io – verrà un altro collega a perquisire l’appartamento e vi porteranno tutte e due al gabbio”, mentì. “Dai, liberatemi subito e metto una buona parola”, ammiccò, ma – per tutta risposta – la bionda gli mollò un altro schiaffone che gli fece lacrimare l’occhio.
“Uè, zoccola! – reagì Iodice d’istinto – io ti spacco la faccia, io ti rompo il culo io ti, io ti… e dai, scioglimi di qua, sento pure freddo in mutande!”, piagnucolò.
Le ragazze, allora, si abbassarono a guardare una fetta di coscia bianca e molliccia che usciva da un paio di boxer a righe e alzarono gli occhi disgustate, soprattutto per una macchia giallognola che spiccava sul bianco delle mutande come un baffo di evidenziatore.
“Che famos Debra?!”, chiese la mora.
“Como l’altro?”, chiese la bionda.
Annuirono in sincrono.
“E poi scappamo via!”, sorrise Laila.
Iodice si intromise: “Se non ve ne siete accorte, ci sono anche io qua, legato come un salame.
Che volete fare?
Quale altro?!”
Laila, che era più vicina, gli fece una carezza languida: “Ma nada… un cliente di Debra.
Lui, mentre fare amore, venuto bum bum al cuore.
Morto, stecchito”.
“E allora?!”, chiese Iodice alzando un sopracciglio.
“E allora noi non vuole andare in galera, e fatto lui tanti piccoli pezzi, messo in valigia e portata in campagna, a San Nicola.
Andate con motorino e buttato in pozzo dietro Chiesa vecchia…”, sorrise.
Pezzi?
Chiesa?
“Ed era un signore di una cinquantina d’anni? Geometra?!”, chiese il Commissario.
“No sabe se geometro – fece per tutta risposta Debra – però lui sicuro ricchiona.
Lui piaceva vestire da donna, mettere rossetto, smalto. Poi io dare ello tanti bofetón su el culo!”, strizzò l’occhio. “Lui mucho piacere.
Ultima volta, però, piaciuto mucho mas!”, sorrise sarcastica.
Ecco – realizzò Iodice – dove era andato a cacciarsi il Geometra.
In fondo a un pozzo.
E la moglie che lo cercava sui cantieri!
A Sodoma, doveva andare a beccarlo.
E queste due sfigate, che se n’erano pure perso un pezzo per strada.
Il Commissario, allora, provò ancora a insistere per salvarsi la pelle: “Ma io non sono mica morto.
Su ragazze, diciamo che abbiamo scherzato… non succede nulla e amici come prima.
Sapete che vi dico?
Faccio proprio io rapporto al Comando, dicendo che qui ci sono due studentesse oneste, che non fanno male a nessuno, e così potete lavorare in pace, ok?
Magari vengo anche a trovarvi ogni tanto”, strizzò l’occhio.
Laila e Debra si fissarono a vicenda, poi una scintilla malvagia si accese nel loro sguardo. Ficcarono la testa nell’armadio di fianco alla croce del supplizio e uscirono con in mano un segaccio per una.
“Che volete fare?!
Aiuto, aiuto!”, iniziò a strillare Iodice, scuotendosi e dimenandosi come un ossesso. Più si avvicinavano le lame, più si agitava.
Tutti i suoi centodieci chili di grasso e muscoli pulsavano all’unisono.
Alla fine, sentì un piccolo cedimento.
Continuò a tirare forte e un braccio intero della croce venne giù, con un rumore secco e un odore di segatura. Iniziò a roteare quel pezzo di legno allacciato al polso, come una clava, colpendo la più vicina – Debra – in piena fronte.
La ragazza si accasciò urlando, mentre l’altra scappò dalla stanza, sculettando sui tacchi.
Iodice ne approfittò per liberare anche l’altro braccio. Raccolse la giacca da terra e l’infilò sul petto nudo, mettendosi a correre dietro alla ragazza, che aprì l’ingresso e si precipitò giù per le scale.
“Ferma Polizia!”, gli urlò dietro il Commissario.
“Guarda che sparo!”, la minacciò sporgendosi sul corrimano, anche se era in mutande e aveva lasciato la sua Beretta in macchina.
Alle urla di Iodice, la porta di fronte si aprì e Luciano Aprile fece capolino sulla soglia: “Capo!
Ma che fine avevate fatto?!”, chiese sorpreso.
“Venite di qua – aggiunse ringalluzzendosi – ho beccato l’assassino: ne stava facendo fuori un’altra!”
“Assassino?
Altra?!”, chiese Iodice riprendendo fiato.
Oramai, la ragazza – Laila – era andata, e chi la beccava più. Magari avrebbero diramato un avviso di ricerca dopo, una volta arrivati in Questura.
Ma allora chi era questo assassino di cui parlava?!
“Ma sì!
L’ho fermato appena in tempo – insistette Aprile – l’aveva legata sul letto e la stava frustando”, strizzò l’occhio. “Venite dentro a vedere…”, spalancò la porta e gli fece strada.
Iodice – in giacca e mutande – si affacciò nell’appartamento. Seguendo il Sovrintendente, percorse in fretta il corridoio verso la porta che dava sulla camera da letto.
Ci trovò stesa una donna – grassoccia, sui cinquanta – vestita con un completo da sadomaso in pelle nera aderente e catene strette ai polsi e le caviglie, che ridondavano ad ogni respiro. Piangeva, si dimenava, cercava di urlare, ma aveva una palla di gomma rossa infilata in bocca.
Seduto in un angolo – ammanettato – c’era un uomo. Era vestito di pelle, pure lui, un bel corredino bondage, con tanto di maschera nera, chiusa da una cerniera cromata, che correva dalla fronte al mento.
Iodice si avvicinò e tirò giù la zip.
“Loffredo! – esclamò – ma come vi siete combinato?!”
Il fratello del Sindaco abbasso gli occhi desolato: “Beh, che vi devo dire Commissario: volevamo provare pure noi il brivido del proibito!”
Iodice sospirò, e tirò di nuovo su la zip, nascondendo il volto stralunato dell’uomo.
“Aprile!”, sbottò. “Ti avevo detto di venire all’interno quattro, questo è il tre.
Capra!”