Se bruciasse la città


Warning: Illegal string offset 'char-count' in /web/htdocs/www.inchiostronero.eu/home/site/wp-content/themes/ink/stag-customizer/stag-customizer.php on line 481
17 minute read
Warning: Illegal string offset 'char-count' in /web/htdocs/www.inchiostronero.eu/home/site/wp-content/themes/ink/stag-customizer/stag-customizer.php on line 481

Ma la smetti di starmi attaccato al culo?!”, ringhiò la donna voltandosi di scatto.

Io?!”

Sì, proprio tu: per poco non me lo fai sentire dietro l’ombelico!” gli strillò in faccia, con i gomiti rigidi e le mani piantate nei fianchi.

L’uomo scoppiò in una risata nasale che fece tremolare come un creme caramel la sua grossa pancia. I bottoni della camicia a fiori tiravano per l’enorme pressione, che manco il ponte di Genova ne aveva sopportata mai una simile in cinquant’anni e più di attività.

Che stronzo!”, fece la donna e gli mollò un ceffone all’altezza del viso.

La mano gli attraversò i baffi, le labbra sottili e increspate, il setto nasale deviato, i capelli rossicci e lunghi sul collo, fino a stamparsi sulla grondaia che era attaccata al muro alla sua sinistra.

Ahia!”, si lamentò, stringendosi con l’altra mano le dita indolenzite per il colpo. “Mi dimentico sempre che sei morto, carogna!”

Altra risata grassa e – qui – un bottone della camicia saltò per davvero, schizzando verso l’alto, per poi disperdersi in una nuvoletta di vapore azzurrino.

Sospirò rassegnata: ma che male aveva fatto?!

Cioè, dove mai si era visto che una poverina doveva andare a lavoro con un fantasma?

E che fantasma, poi!

Mica un Angelo custode, di quelli che da piccola vedeva disegnati sul libricino del catechismo. Com’era che faceva: “Angelo di Dio, che sei il mio custode, illuminami e custodiscimi eccetera eccetera…”. Insomma, un cosetto bellino bellino, un batuffolo con le ali bianche di piccione e due guance grosse e tonde come caramelle alla fragola.

Mica una bestia del genere!

Maledetto il giorno in cui era scesa in archivio.

Il Capo, sempre lui. Maledetto.

Caputo, fai questo!

Caputo, fai quello!

Caputo portami la pratica della rissa all’Irish Pub di venerdì notte; Caputo il telefono; Caputo hai fatto quell’Informativa alla Procura?!”

Insomma, Caputo-Caputo, quando c’era qualche rogna, era sempre l’Agente scelto Marika Caputo che se la doveva grattare.

Una vitaccia!

Ma fino ad allora sopportabile.

Più o meno.

E finito il turno – chiuso il suo piccolo ufficio nel Commissariato di P.S. di Grazzianise – poteva sempre tornarsene a casa circondata da… niente.

Oddio, niente proprio no: c’era sempre il Gatto ad accoglierla.

Beh, insomma… diciamo almeno che c’era. E che si sbafava di crocchette e paté di pollo, prima di ritirarsi a sonnecchiare su una poltrona del soggiorno.

Ma c’aveva fatto il callo.

E dopo un fidanzamento ultradecennale rotto sull’altare e una sfilza di casi umani collezionati negli anni, la compagnia di un felino – anche se opportunista e strafottente – era più che sufficiente.

Chi glielo doveva dire che il prossimo a portarsi a casa non sarebbe stato un altro randagio, ma un fantasma?!

Un fantasma sporco, sessista, rattuso e per di più morto in un conflitto a fuoco nel 1975.

Era il 24 novembre, le dieci del mattino.

Un commando di quattro uomini armati aveva appena messo a segno una rapina all’Agenzia del Banco di Napoli di Francolise. Quando i rapinatori uscirono, per darsi alla fuga, all’esterno trovarono già le forze dell’ordine ad attenderli che, avvertiti da un passante, ingaggiarono un violento conflitto a fuoco con i delinquenti che si difesero sparando all’impazzata tra la folla presente nel vicino mercato.

Lui – Aristide Tagliafierro, all’epoca Sovrintendete Capo della Pubblica Sicurezza – non doveva essere di servizio quella mattina, ma l’influenza aveva decimato il Commissariato ed era stato costretto a montare in macchina e correre sul posto a sirene spiegate.

Diversi passanti rimasero lievemente feriti, mentre Tagliafierro morì sul colpo: inizialmente colpito ad un ginocchio da una pallottola di rimbalzo e poi trafitto alla testa da un colpo di fucile.

E non aveva nemmeno quarant’anni.

Lui, poi, che proprio quella mattina avrebbe dovuto incontrarsi con una vedova bella in carne, raccattata due giorni prima in Commissariato quando era venuta a denunciare uno scippo.

Quando si dice la sfiga!

Comunque, non aveva capito bene cosa fosse successo dopo. Non si era accorto del colpo che gli aveva sfondato il cranio, del sangue che aveva inzuppato il selciato. Dell’ambulanza, dell’inutile corsa all’ospedale.

Nemmeno del suo funerale, si ricordava. Delle lacrime (finte) della sua ex moglie e quelle (ancora più finte) del Questore e del Commissario Capo.

Semplicemente, si era ritrovato giù nell’archivio del Commissariato, in una specie di Limbo di fascicoli polverosi e topi ghiotti di carta inchiostrata.

Da quel 24 novembre, era rimasto sempre lì.

Bloccato.

Nessuno gli aveva detto nulla.

Non c’era stato nessun San Pietro, con la barba lunga e un mazzo di chiavi dorate ad aprirgli le porte del Paradiso. Per contro e per fortuna, non c’era stato nemmeno un diavolone con le corna e la coda a punta a ficcargli un forcone su per il sedere.

Non lo sapeva nemmeno, se c’erano un Paradiso e un Inferno. E, cosa più grave, non sapeva per quanto sarebbe rimasto lì sotto e – eventualmente – come avrebbe dovuto fare per passare al livello successivo.

Se c’era, un livello successivo.

Così, erano passati più di quarant’anni in cui l’unica distrazione era stata quella di assistere a gare di scarafaggi o spaventare qualche agente facendogli cadere un faldone di fascicoli alle spalle.

Scherzi del cavolo, ma che lo avevano aiutato a passare il tempo mentre si avvicendavano le generazioni di poliziotti.

Fino al giorno in cui incontrò Marika.

Il Capo – il Commissario Attilio Pagano, cinquant’anni, alto, ossuto, con una cicatrice sotto l’occhio sinistro, i capelli grigi tagliati corti, le mani enormi, da scaricatore di porto e le orecchie pelose – l’aveva spedita di primo mattino a raccogliere una serie di fascicoli riguardanti gli incendi dolosi degli ultimi cinque anni.

Sempre a lei.

Perché era giovane?

Perché era donna?!

No, perché era stronzo.

Per non dargli soddisfazione, s’era immediatamente messa al lavoro, iniziando dai faldoni del 2010 in poi. Non era facile: non c’era un archivio informatico e i fascicoli erano stati sistemati a cazzo di cane. Avrebbe dovuto spulciarli uno per uno: un lavoro immane.

Per questo aveva mandato lei.

Stronzo due volte.

Insomma, stava sciogliendo le fascette dell’ennesimo faldone, seduta a terra a gambe incrociate, quando si voltò di scatto sentendo come un fruscio dietro le sue spalle.

Che ci fa qui sotto?”, disse non senza una punta di agitazione nella voce all’uomo in piedi dietro di lei. Aveva un completo color crema, la giacca a tre bottoni e i pantaloni a zampa faticosamente stretti in vita da una cintura in maglia intrecciata. La camicia a fiori, con un enorme colletto rigido, era aperta sul petto fin quasi all’altezza dello stomaco, che sporgeva come la prua di una nave mercantile.

Questo sbarrò gli occhi, sopra un naso affilato e i baffi a manubrio. Fece due passi indietro, spaventato. “Tu-tu mi vedi?”, ebbe la forza di mormorare.

Era la prima volta che (tranne qualche ululato come nell’ultimo film di Lucio Fulci che aveva visto al cinema) non pronunciava una sola sillaba da oltre quarant’anni.

Marika si alzò di scatto, lasciando cadere il faldone. I fascicoli si liberarono dalle fascette e si dispersero a raggiera sul pavimento umido. “Non solo la vedo, ma le sparo pure se non mi dice che cosa ci fa qua sotto!”, ringhiò.

La prima cosa a cui la giovane poliziotta pensò fu che si trattasse una spia, sì, insomma, qualcuno interessato all’archivio. Qualcuno che aveva interesse a far sparire qualche incartamento importante.

Non sarebbe stata la prima volta, del resto.

Si avvicinò minacciosa: “Allora?!”, gli puntò contro un indice accusatorio. “Mi dice chi è o devo chiamare rinforzi?!”, aggiunse cercando di convincere più sé stessa, che l’altro, di non essere da sola lì sotto, nel dedalo buio degli armadi. Anche la voce le tremava sensibilmente, ma cercò di dissimularlo con un colpo di tosse.

L’uomo non rispose.

Meravigliato, anzi, più spaventato di lei, Tagliafierro allungò una mano, cercando di stabilire un contatto. Erano anni, del resto, che non toccava una donna e non gli sembrava vero di averne davanti una in carne ed ossa!

Marika, però, lo avvertì come un tentativo di aggressione e provò a mollargli prima un calcio, poi un pugno teso, come le avevano insegnato al corso di difesa personale, ma si accorse che la sua mano attraversava la figura senza colpirlo, come nei film dell’orrore.

A quel punto, davvero terrorizzata, svenne.

Per un po’ rimase a fluttuare in un nulla gelatinoso e confortante. Poi cominciò a riemergere penosamente alla coscienza: piccoli flash lattiginosi si infilavano sotto le palpebre, voci concitate parlavano tutte insieme alla rinfusa, come la cacofonia di un concerto rock con le chitarre scordate e la batteria fuori tempo.

Era in una specie di coma vigile, se era vero che in quello stato riusciva a percepire quello che le stava intorno senza poter reagire.

Caputo, Caputo mi senti?”

È sotto shock, portiamola all’ospedale!”

Veloce, sbottonagli il colletto della camicia…”

Sentì una mano fredda armeggiare con il primo bottone, poi col secondo, al terzo la donna reagì con uno schiaffo secco su quelle dita rapaci: “Carozza!

Non te ne approfittare!”

Il collega ritirò la mano, come morsa da un cobra: “Scusa, volevo solo aiutarti”.

E non aiutare troppo!”, fu la risposta acida della donna, che spalancò di colpo gli occhi.

Sono sceso a prendere un fascicolo per il Capo, ti ho vista a terra, ho chiamato aiuto e ho cercato di farti rinvenire”, si giustificò, chiamando a testimoni Sorrentino e Bologna, che erano accorsi sentendolo urlare dall’ultimo pianerottolo in basso.

Devi aver avuto un capogiro. C’è poca aria qui sotto”, la tranquillizzò Sorrentino, guardandola calmo con i suoi occhi azzurri da cerbiatto. Nemmeno sembrava un poliziotto, ma un ballerino di tango, per come si muoveva, con una flemma essenziale, quasi erotica.

Marika accennò un sorriso. Aveva sempre avuto un debole per quell’uomo.

Comunque aveva ragione lui: l’aria rarefatta del seminterrato doveva averle provocato una specie di allucinazione. Non c’era nessun altro là sotto. Non c’era mai stato, tranne qualche topo e qualche nidiata di piattole.

Si sforzò di alzarsi.

Aspetta, ti aiutiamo”, fecero i tre in coro ma – rialzando gli occhi, sopra le loro teste – Marika incrociò nuovamente lo sguardo curioso di quell’uomo, con i suoi baffi folti la camicia a fiori e il colletto impossibile.

Cacciò un urlo e finì di nuovo per terra.

Quando si riebbe, la dovettero portare di sopra a braccia, quindi l’ambulanza del 118 – che era accorsa alla chiamata del Centralino – la ricoverò in osservazione per una intera notte.

I medici non trovarono nulla che non andasse nel suo cervello. Le fecero pure una tac e un esame audiometrico. Lei, per parte sua, non si azzardò nemmeno a nominare il fantasma del seminterrato.

Già: ci mancava solo quello!

Sarebbe diventata lo zimbello di tutto il Commissariato, di tutta la Questura!

Ma quella cosa andava risolta.

Rientrata in servizio, dopo due giorni di meritato riposo, se ne andò di nuovo in archivio. Molto silenziosamente scese le scale e aprì la porta blindata che sbarrava tutto il piano, entrandovi con passo felpato. L’ambiente, al solito, era ampio e buio, con grandi macchie d’umidità alle pareti e, nella prima parte, l’unica luce al neon sul soffitto funzionava ad intermittenza.

Proprio per questo accese la torcia sul telefonino, decisa ad ispezionare l’ambiente centimetro per centimetro: se c’era veramente qualcuno, l’avrebbe trovato.

Nel locale buio e silenzioso riusciva a sentire il proprio respiro affannato, il cuore che le martellava producendo piccole scariche elettriche, a mano a mano che si infilava tra le file di armadi di acciaio stracolmi di fascicoli polverosi.

Svoltò un paio di volte a caso, con il fascio di luce puntato sulle scarpe.

Cerchi me, bellezza?!”

La voce proveniva dalle sue spalle e Marika si girò d’istinto. Come d’istinto fece per prendere la pistola, che teneva nella fondina slacciata sul fianco, ma alla fine realizzò che sarebbe stato del tutto inutile.

L’uomo, o fantasma, o Dio solo sa che cosa fosse, era appoggiato a uno scaffale, con una mano in tasca e l’altra tra i capelli, col gomito in alto, come una banderuola.

Le strizzò l’occhio ammiccando.

La poliziotta abbassò le braccia esausta: “Si può sapere che vuoi da me?!”

L’uomo fece finta di pensarci un attimo: “Che ne dici di una sveltina?”

Marika lo trapassò con un’occhiata disgustata: “Sei un maiale!”, sbottò.

Da quel giorno non se l’era tolto più di torno.

Prima soltanto in archivio, poi il fantasma aveva preso l’abitudine di salire su, nel suo ufficio, in pieno giorno, con totale indifferenza. Rimaneva ore appollaiato sulla scrivania, o impalato in un angolo, senza che nessun altro, tranne Marika, potesse vederlo.

Alla fine, se lo ritrovò anche a casa, tanto che dovette imparare a fare la doccia vestita, per non offrirgli piccanti siparietti. “Si può sapere quando finirà questa storia?!”, gli ripeteva sempre.

E lo chiedi a me?!

Non so nemmeno cosa ci faccio ancora qua io!”, le rispondeva sempre scrollando le spalle.

Anche Gatto era esasperato.

Probabilmente non riusciva a vederlo, ma come tutti i felini aveva un sesto senso per il paranormale e iniziava a soffiare e drizzare il pelo quando ne avvertiva la presenza in casa. Anche per questo Marika aveva preso l’abitudine di portarselo a letto, per essere sicura che quel maniaco travestito da (ex) poliziotto, non fosse nei paraggi e non potesse spostarle il lenzuolo con un soffio e spiarla sotto la camicia da notte.

Insomma, erano passati quasi due mesi da quando l’aveva visto per la prima volta nell’archivio e da quel giorno – volente o nolente – avevano fatto coppia fissa.

Lui continuava a vantarsi di essere stato il miglior poliziotto della Questura di Caserta, dotato di un infallibile fiuto, colpo d’occhio e mira sicura come l’Ispettore Callaghan, di cui aveva fatto appena in tempo a vedere i primi due film e che era un po’ il suo modello assieme al duro per eccellenza: il mitico John Wayne.

Quando Marika gli confidò che – anni dopo la sua morte – si era scoperto che il rigido pistolero de Il Grinta e Rio Bravo era stato omosessuale, beh, per poco non gli veniva una sincope. Ma siccome era già morto, reagì sparendo dalla circolazione per un paio di giorni buoni.

Quando tornò, con un filosofico: “Cazzi suoi, non sa che si è perso!”, archiviò per sempre John Wayne nella sua memoria.

Non abbandonò, comunque, l’idea di rimettersi in gioco e di continuare a fare, anche adesso, dopo il trapasso, quello che sosteneva di saper fare meglio: il poliziotto.

Senti, io là sotto mi sono rotto le palle per quarant’anni!

Sapessi almeno far stridere le porte e sferragliare le catene.

Niente.

Non è arte mia… Invece, io e te, là fuori, potremmo essere davvero una coppia invincibile. Meglio di Batman e Robin, meglio di Sherlock Holmes e Watson, meglio di…

Meglio di Stanlio e Ollio?!”, lo interruppe Marika indicando la sua pancia gonfia come una zampogna. Poi scoppiò in una risata sarcastica.

Il fantasma la trapassò con lo sguardo.

Non volle comunque sentire ragioni: il Sovrintendete Tagliafierro – quasi Ispettore, se avesse avuto tempo – sarebbe tornato in pista.

Quella sera erano sulle tracce del piromane dei cassonetti, quello su cui aveva iniziato a lavorare fin da quella mattina che era scesa in archivio. Almeno venti roghi in poco più di tre mesi e in punti diversissimi della città.

Il Questore, il Comune, l’Azienda rifiuti, non sapevano più che pesci pigliare. Si temeva una regia occulta, magari la mano della camorra per accaparrarsi il business dei rifiuti.

I cittadini erano stremati e passavano le giornate tappati in casa per la puzza acre che stringeva alla gola.

Tagliafierro si sistemò la camicia nei pantaloni: “E comunque – riprese mentre Marika si succhiava le dita indolenzite per il colpo alla grondaia – magari fossi stato io ad appoggiartelo. Ma non mi è più possibile. Una volta, magari…”, sospirò malinconico. “Comunque – riprese – hai dimenticato che hai la pistola infilata di dietro nel jeans!”, le ricordò sghignazzando.

La giovane donna portò la mano alla cintura: era vero. La sua Beretta era là, col colpo in canna, coperta dal giacchino di pelle scamosciata.

Tu però stammi lontano lo stesso!”, sbottò. Non voleva dargliela vinta in nessun modo.

Era notte, le tre, forse le tre e mezzo.

In strada non c’era nessuno.

Meglio, così non l’avrebbero presa per pazza, a parlare da sola e a schiaffeggiare l’aria fredda della notte.

Il servizio prevedeva un appostamento in una zona di periferia che non veniva interessata dalle fiamme da almeno una settimana. Per una probabilità statistica era il posto perfetto per un nuovo rogo.

Solo che erano almeno quattro ore che giravano in tondo, tenendo d’occhio con circospezione i cassonetti in strada, senza che nessuno si fosse fatto vivo.

Lei per parte sua, era scesa di casa armata di tutto punto perché non era da escludere che quella sistematica azione incendiaria non fosse solo una ragazzata, ma che ci fosse qualcosa di grosso dietro. Anche per questo l’ordine era di osservare, monitorare e avvisare la Centrale, che avrebbe catapultato sul posto tutte le pattuglie disponibili.

Un paio di volte era salata sul posto, ma si era trattato solo di qualche gatto che si litigava con gli altri gli avanzi nelle buste dell’umido.

Perchè non andiamo a farci una birra?!”, le fece Tagliafierro verso le quattro. “Tanto si è capito che per stasera non si abbusca niente!”

Marika lo guardò in cagnesco: “Punto primo – iniziò stendendo il pollice – sono in servizio.

Punto secondo – sganciò l’indice – devo piantonare la zona fino alle sei.

E punto terzo – tirò fuori il medio – nemmeno puoi afferrarla una birra, specie di ectoplasma puzzone!”, ritirò le prime due dita, lasciando solo quello centrale in bella vista.

Tagliafierro sbuffò col naso: “Acida – disse – troppo acida.

Dovresti trombare di più!”, le fece un occhiolino.

Se non mi stessi sempre attorno, magari, potrei anche cercare di farmi una vita, che dici?!”

Tagliafierro la osservò in silenzio.

Eh? Non sarebbe il caso di tornare giù in archivio?

Magari con un bel lenzuolo in testa”.

Shhhhhhh”

E non permetterti di zittirmi!

Nemmeno mio padre…”

Ma la finisci?!

Hai sentito??”, la interruppe l’uomo.

C-cosa?!”, chiese lei sbiancando.

Un rumore… veniva di là, dietro l’angolo”.

S-sarà stato un altro gatto”, cercò di tranquillizzarsi.

I gatti non suonano la batteria”.

Acquattati, camminando rasente il muro, raggiunsero l’angolo del palazzo.

Tagliafierro sbucò per primo dall’altra parte, protetto dalla sua perpetua condizione di invisibilità. Quando – subito dopo – Marika affacciò la testa si trovò di fronte ad una scena che non avrebbe mai dimenticato: c’erano quattro ragazzi, davanti ad un cassonetto da cui le fiamme si alzavano sempre più alte e violente. Avevano larghe felpe colorate e pantaloni larghi col cavallo che scendeva fino alle ginocchia.

Un altro li stava riprendendo, con una piccola fotocamera digitale.

Da un altoparlante, sul marciapiede, uscivano le note di una base musicale.

Se bruciasse la città…”

Cosa?”, gli chiese Marika in un mormorio appena percettibile.

Dico, la canzone: Se bruciasse la città, di Massimo Ranieri.

Bella. È uscita tre o quattro anni fa… la ballavo sempre: certi lenti stropicciati!”, ammiccò lo spettro.

Marika non l’aveva mai sentita.

Magari perché era stata pubblicata nel ‘70, e all’epoca non era che un progetto nei piani di Dio.

A un certo punto i ragazzi iniziarono a muoversi ritmicamente, poi a ballare una coreografia sincronizzata. Quindi iniziarono a rappare sulla base. Frasi secche, strascicate, come una nenia.

Che diavolo stanno facendo!

Sembrano quattro mitragliette inceppate”, si lamentò il fantasma, tappandosi le orecchie con i palmi delle mani.

Marika sorrise: “Si chiama rap!”

Tagliafierro liberò un orecchio e alzò un occhio: “Ra-che?!”

Rap.

E’ un genere musicale…”

Musica questa?!”, la guardò disgustato.

Sì, si fanno rime e assonanze su basi registrate. Stavolta è toccato al tuo Massimo Ranieri”, sorrise.

Possino ammazzarli!

Povero Massimino…”

Perchè, dai, non è così male!

Da ragazzina c’andavo pazza per il rap. E questi sono pure bravi. Vedi?

Stanno girando un videoclip”

Un video-che?!”, chiese di nuovo sconfortato.

Un video della canzone, lo fanno girare su internet per farsi pubblicità”.

Senti, uno di questi giorni mi dovrai fare un bel corso di aggiornamento accelerato, sennò qui ci perdo la testa.

L’unica cosa che è rimasta tale e quale, grazie a Dio, sono le tette!”

Fece una pausa estatica, poi riprese: “Comunque, adesso vuoi chiamare la Centrale, così poi ce la andiamo a fare una bella birretta?!”

Marika si mordicchiò un labbro: “Uhm… sì.

Subito.

Fammi solo sentire come finisce il pezzo”, si allargò in un sorriso maliziosamente ingenuo.