Torquemada

Notte torrida, che sveglia i morti e spedisce i demoni a spasso sulla terra. Sudo come una vecchia spugna per la tazza del bagno qui in questo sudicio angolo, di questo sudicio vicolo, di questa sudicia, inutile città.

L’afa mi toglie il respiro.

L’ansia lancia il cuore a mille.

Respiro.

Respiro.

Qualcosa mi dice che ci sono vicino.

Qualcosa…

Mi blocco per ascoltare se c’è qualcuno. Niente. Vado avanti, entro nel vicolo. Il buio è totale, ma mi è amico.

Nasconditi, penso.

Nasconditi al buio, nel vicolo è l’ideale. Aspetta che i fari della macchina giù, in fondo alla strada, si spengano. Fai attenzione all’uomo alla finestra e quando se ne ritorna in casa, entra nel cancello di legno e lamiera in cima al vicolo.

L’aria arsa sa di ferro e di ruggine.

Pizzica in gola.

Magari è solo la sigaretta, penso tirando un’altra boccata.

Nascondo la cicca rovente nel pugno chiuso.

Mi addentro nel piccolo spiazzo, camminando prudente e circospetto, spalle al muro. Il cortile è ingombro di immondizia e vecchie carcasse di automobili: mi aspetto anche un cane di grossa taglia, magari un pitbull o un rottweiller, ma, per fortuna, non si fa vivo nessuno. Neanche i cani c’hanno voglia di lavorare con questo caldo!

Nel palazzo di fronte – oltre il cortiletto interno – tutte le persiane sono buie. Butto la cicca nel vuoto e seguo con lo sguardo la parabola arancione che striscia il nero, come un piccolo razzo. E’ in questo momento che si illuminano le due finestre al secondo piano. Una ampia, con un vetro rotto, e una porta finestra che affaccia su un piccolo balcone di ferro e cemento. La luce non è troppo forte, sembra quasi una candela, ma mi permettere di distinguere nettamente due ombre che si muovono a scatti, sullo sfondo.

MI schiaccio al muro e rimango a osservare.

Dicevo io!

“Disabitato…”, così mi aveva comunicato serio-serio un impiegato del Comune, quando stamattina presto sono stato all’Ufficio Tecnico per controllare. “Precisamente dall’80… abbiamo, sì, una pratica Terremoto, ma – da quel che sappiamo – non c’è mai stato nessun risarcimento. Lo sapete come vanno queste cose, Ispettò!, alcune pratiche hanno la precedenza e altre… come dire… si perdono sugli scaffali…

Insomma, se non avete nessun Santo in Paradiso…”

Ripenso a quella faccia di cazzo dell’impiegato: disabitato?

Disabitato il cazzo!

Guarda là…

Un alito di vento caldo muove le assi alle finestre che cigolano, le due ombre si muovono su e giù nella stanza. La luce si spegne, la luce si accende. Allungo il collo, continuo a sentire in bocca uno strano sapore.

Mi muovo.

Minchia: non ci sono mai stato così vicino come ora.

Figlio di puttana…

Sei mio!

Mi avvicino alla porta che si apre senza cigolare e senza fare rumore, ed entro cauto nell’appartamento al piano terra. Non conosco il posto, ma conosco il tipo. E sento il dolore e la rabbia e la paura che abitano queste quattro pareti.

L’appartamento è immerso nel buio. Ovvio. Ogni storia che si rispetti comincia con l’appartamento vuoto, nel buio della notte.

Un passo cauto, poi un altro. Fuori la luce tenue di uno spicchio di luna rancido. Dentro sottili lame giallastre che filtrano dalle persiane sbilenche e mi aiutano a non urtare contro qualcosa e rovinare tutto proprio adesso.

Un vecchio soggiorno e il bagno si affacciano cupi sul disimpegno. Le assi del pavimento rilasciano una eco di resina invecchiata, misto ad un odore nauseante di carne marcia, e capisco che – cazzo! – ci sono davvero vicino. C’è polvere dappertutto. Polvere sul pavimento, polvere sul tavolo e sui resti di un paio di vecchie sedie. Polvere sulle mensole e sui mucchi di immondizia sparsi un po’ dappertutto qui intorno.

Sento un movimento e un grido strozzato provenire dalla camera in alto. Mi irrigidisco trattenendo il fiato.

Rimango così per una manciata di secondi…

Tutto a posto. Non si vede nessuno.

Non viene nessuno…

Le finestre sono grigie di vecchiaia e di sporcizia e tutto sembra morto e immobile, tranne la tenue luce che filtra attraverso i vetri polverosi.

Passo in cucina: anche qui sembra tutto normale, come l’istantanea ingiallita di una notte di trent’anni fa, con le pareti che tremano, i lampadari che dondolano, la gente che urla e scappa in strada, lasciando a metà la cena…

…e i bicchieri negli stipi, i piatti nelle piattiere, la paura sotto i tavoli.

È lì, sotto il tavolo, che la ritrovo, la paura: una macchia di sangue secco, ripulito alla meglio con uno straccio, e, come un giocattolo rotto, quel che rimane di un braccio e di una mano di circa una decina di centimetri.

No, non un nano… un bambino!

Questo è il braccio di un bambino.

Respiro affannosamente il sapore di ferro e di ruggine rilasciato dall’emoglobina e dalla carne guasta. Lo stesso che avevo iniziato a percepire già in fondo alla strada, quando pensavo fossero solo le carcasse delle macchine!

Torquemada.

Così l’hanno soprannominato i giornali, come il Grande Inquisitore del ‘500, con l’hobby della tortura.

Per me è solo un sadico pezzo di merda!

Rimando a mente le foto nel dossier: otto…

Otto corpi di bambini tra i cinque e gli undici anni sono stati ritrovati negli ultimi sei mesi, nelle campagne tra Capua e Sant’Angelo in Formis, e di almeno altrettanti non se ne sa più niente da settimane!

Stuprati, uccisi, vampirizzati, mutilati e cannibalizzati.

Questo malato bastardo non si risparmia proprio nulla!

Sembra quasi che si diverta a inventarsi e sperimentare le torture più assurde e schifose: roba che da queste parti non si vedeva da secoli!

Come quando abbiamo ritrovato, sotto un albero, il corpicino di Eugenio Terrasi, Gengi…

Gengi era accoccolato sul terreno, con la testa su una pietra. Sembrava quasi che dormisse, povera stella, se non fosse che la sua pelle, liscia e tesa come un tamburo, era attaccata all’albero con le puntine da disegno!

Quel bastardo l’aveva scorticato vivo!

Un affare da non dormirci per un anno intero… quasi quasi faccio causa di servizio al Ministero degli Interni, e mi faccio mandare in pensione!

Carolina, invece, aveva sette anni… l’ha trovata in un fosso di scolo per l’irrigazione del tabacco un contadino di Calvi Risorta. Torquemada l’aveva bollita a morte, finché le carni non si erano spaccate e il sangue condensato nelle vene come crema di fagioli. I vestitini erano tutti impregnati di fango e ruggine, perciò abbiamo ipotizzato che avesse utilizzato uno di quei vecchi bidoni per bollire i pomodori in casa, col bruciatore a gas.

Vai a capire dove, però.

Il piccolo Giorgio Colella, invece, l’abbiamo trovato in due puntate: metà del corpo era a Capua, in un cassonetto della spazzatura, l’altra metà, invece, l’hanno trovata una settimana dopo dei cacciatori di quaglie in un canneto a Villa di Briano.

Il bastardo l’aveva segato in due come un cocomero!

Che schifoso…

Negli ultimi sei mesi ho avuto un solo, unico, costante chiodo fisso: il desiderio di legargli le mani dietro la schiena e lavorargli il sedere con un martello pneumatico demolitore Bosh da 1.750 watt di potenza perforatrice!

Non senza aver lubrificato il tutto con una bella manciata di sale grosso!

Prima, però, avrei dovuto trovarlo…

C’ho messo settimane a riordinare i pezzi del puzzle mettendoli nel posto giusto, per avere un quadro di insieme preciso e concordante. Settimane a perlustrare le campagne in lungo e in largo, assieme a un gruppetto di agenti demotivati e due sfessati che mi avevano mandato a darci una mano dalla protezione civile…

Giorni e notti a verificare ipotesi e testimonianze di mitomani e mamme iperapprensive; a stabilire tempi e modi; ad arrivare, con una certa approssimazione, a circoscrivere il territorio in un’area sempre più piccola, sempre più piccola… fino a una palazzina abbandonata… ficcata in mezzo ai vicoli bui di Calvi…

Il posto ideale: si può essere invisibili solo in mezzo alla gente!

E cazzo, sono calato sette chili per trovarla! Ho pure litigato con il Questore e con mia moglie. E adesso eccomi qua: solo un piano ci separa…

Un piano… due rampe di scale.

Mi trovo a nemmeno sette metri dal più grande pezzo di merda che la storia abbia conosciuto dopo Stalin e Pol Pot!

Esco dalla cucina e ritorno in corridoio. Alzo la testa e sento dei rumori secchi e metallici, provenire dal piano di sopra. Poi una serie di colpetti secchi, come in una falegnameria. Inforco la prima rampa di scale e rimango, così, in bilico sul primo gradino.

Prendo un bel respiro e…

E…

“La la la la la

la la la la la

la la la la la

la la la la

la la la la la la la la la la…

Il paradiso

tu vivrai

se tu scopri quel che hai…”

Rimango immobile e perplesso.

Ma che cazzo sta succedendo?!

Patty Pravo?!

Sì: questa è Patty Pravo, Il Paradiso!

Anno 1969.

Questo sporco bastardo c’ha pure la passione per la musica leggera degli anni sessanta! Ma tu guarda!

Che poi, io la odio proprio questa canzone: è la stessa di quando ho conosciuto mia moglie, e questa cosa di farmi ricordare quella vecchia stronza, mi fa incazzare anche di più!

Salgo fino in cima alle scale.

Studio la situazione.

La porta della camera è socchiusa. Dalla stanza proviene un tenue bagliore, oltre alla voce inconfondibile della Ragazza del Piper. Mi avvicino cauto e cerco di guardare dentro. È difficile, ma ormai non mi posso più tirare indietro. Scosto piano il pannello di una vecchia porta e getto dentro un rapido sguardo.

Una giacca a quadretti è attaccata ordinatamente alla parete, agganciata a un chiodo. Magari starà lì da anni, mi dico. Lo stereo da cui viene la musica è poggiato sul pavimento, uno di quei vecchi mangianastri con le pile a stilo.

Io apro un po’ di più la porta, e mi aspetto di trovarmi di fronte l’immagine di qualcuno (qualcosa) di orribile e spaventoso… una creatura inquietante, a mezzo tra l’uomo e l’animale. Sì, ecco: un licantropo, una belva ancestrale assetata di sangue umano, venuta fuori dagli abissi del tempo.

Figuratevi la mia sorpresa quando – addossato all’altra parete – mi trovo davanti la figura pingue e insignificante del Ragioniere D’Ambrosio, in carne e forfora.

Ha una vena in rilievo, su una tempia; ansima leggermente, ed è rosso e sudato in viso.

Se ne sta immobile a guardare assorto qualcosa che ha di fronte. Anzi, di più: si è stirato il riportino con la mano e adesso sta ammirando quel qualcosa, con un’espressione tra l’estatico e l’ebete. Come se si trovasse di fronte la Mona Lisa o l’Assunta di Tiziano.

Infilo la testa nella fessura e rabbrividisco: due assi da muratore sono legate alla parete e formano una specie di croce. Il corpicino nudo di un bambino è inchiodato al legno, con il capo reclinato, gli occhi chiusi, l’espressione affaticata e sofferente. E’ magro, le gambe protese in avanti con le ginocchia e i piedi inchiodati a un unico chiodo.

Gocce e rivoli di sangue escono dalle ferite, al piccolo costato, alle mani e ai piedi, e si raccolgono in una pozzanghera scura sul pavimento polveroso.

E quel porco a godersi lo spettacolo, come Ponzio Pilato!

La rabbia mi sale agli occhi come un cazzotto di Clemente Russo alle Olimpiadi di Londra.

Mi accorgo che sto iperventilando.

Cerco di calmarmi, controllare il respiro e, istintivamente, porto la mano alla cintura, dove tengo appesa la pistola di servizio.

Penso ad un’irruzione in stile far west, del genere spara-a-tutto-quello-che-si-muove, ma, poi, in un angolo, abbandonata su una vecchia sedia, noto una testolina bionda e due occhi fissi nel vuoto, quasi catatonici. Riconosco quegli occhi e quel visino: sono quelli di Saretta, la figlia undicenne dei Ragozzino. Non se ne sa più niente da un mese…

Pensavamo tutti (pure io, lo ammetto) che fosse già morta, e che quel porco l’avesse gettata in chissà quale burrone, ma invece no! Eccola là, ancora viva… fuori, almeno. Dentro, chissà…

Devo cambiare tattica.

Non posso rischiare di perdere anche lei…

Pensa, mi dico, pensa!

Torquemada-D’Ambrosio è schiacciato alla mia destra. Sulla parete di fronte alla porta c’è la grossa croce di legno e il bambino, che magari, a quest’ora, sarà pure morto… Saretta, invece, è quasi al centro della stanza, con la faccia rivolta verso la finestra.

Sembra quasi un flipper, con gli ostacoli a meno di tre metri l’uno dall’altro. Potrei fare sponda sulla bambina, e colpire al centro l’uomo.

Tutto sommato potrebbe funzionare.

Tiro un lungo respiro e con un calcio (quanto adoro Clint Eastwood!!), spalanco la porta sulla stanza e mi catapulto dentro.

“Fermo, Polizia!”, grido con la pistola in pugno.

Sono anni che desideravo dirlo!

L’uomo si volta verso di me. Ha il viso terreo e la fronte aggrottata.

Rimaniamo immobili a studiarci per qualche secondo, che a me pare un’ora, mentre Patty, il biondissimo sogno erotico di una generazione (anche io, sinceramente, a suo tempo quelle 10, 15mila botte glie le avrei proprio date…), riempie il polveroso sottofondo con le note di Ragazzo triste.

Lo guardo dritto negli occhi, e sputo a terra.

Faccio per avvicinarmi e – cazzo – succede!

La casa è vecchia, e si sa. Terremotata, e si sa. Non ci abita più nessuno dal 1980, e si sa pure questo. Ma, cazzo, ritrovarmi con un piede in un’asse che mi frana sotto il sedere, quando questo porco-malato, sono almeno sei mesi che va, viene, ci crocifigge i bambini, e magari ci balla pure La spada nel cuore, mi fa incazzare come una bestia!

Ma perché, cazzo, sempre a me?!

Che sfiga.

Se esco vivo da tutta questa storia, devo assolutamente andare a farmi benedire da un prete ricchione!

In ogni caso, il piede mi si pianta dritto nel buco e io finisco carponi, con la faccia a sniffare la polvere del pavimento. La pistola, ovviamente, mi sfugge di mano e rotola nell’angolo opposto, fuori portata mia, ma anche di Torquemada che mi guarda sorpreso e incredulo, ancora indeciso su cosa fare. Poi si scuote, come pervaso da un’ispirazione improvvisa, e mi si avventa contro, lanciando un gridolino stridulo e femmineo.

Nella mano destra tiene il suo bel martello da carpentiere: “Crocifiggilo, appendilo, frustalo, scuoialo, torturalo, mettigli l’aceto nel naso, porta i mattoni!”, grida mentre comincia a prendermi a martellate. Io cerco di coprirmi la testa con le braccia, ma un paio di colpi mi fanno veramente male e penso di essermi rotto l’omero. Scalcio come un disperato e, alla fine, riesco a sfilare il piede da quel cazzo di buco.

Mi rialzo a fatica e gli mollo una ginocchiata nelle palle, che lo piega in due come uno di quei vecchi telefonini Startac. Poi, glie ne piazzo un altro in piena faccia e quel pezzo di merda finisce a terra, sputacchiando sangue sul pavimento.

Che soddisfazione, penso mentre mi stringo le braccia livide con le mani.

Mi sento come Van Helsing trionfante contro Dracula: mi manca solo il paletto di legno, ma se ne trovo uno qua in giro so già dove devo infilarglielo…

Mi avvicino all’uomo, che rantola sul pavimento, pregustando la soddisfazione che mi darà ripassarmelo, prima di schiaffarlo in una cella. Ma non in isolamento: questo malato bastardo non se la merita una vacanza del genere. Fino a quando non dovrà andare in carcere per la convalida dell’arresto, lo farò mettere tra i delinquenti comuni, dove gli altri detenuti lo inizieranno volentieri ai piaceri della sodomia coi manici di scopa!

Faccio per chinarmi, quando sento un rumore sordo rimbombare nella mia testa e riempirla. Le narici riempirsi di zolfo.

Sento il bruciore dietro la schiena, il pezzo di metallo che mi trafigge la pelle, il sangue che esce e pure lo sguardo della ragazzina.

Mi volto e la vedo. Si, è lei, alle mie spalle: Saretta, con la mia pistola ancora stretta nelle piccole mani e nelle braccia tese. Mi guarda con uno sguardo che non è più quello catatonico di prima, ma lucido e fiero, come di una belva ferita.

“Lascia stare il mio fidanzato!”, mi ingiunge, con un tono che non ammette repliche, e a me non resta che sperare che i polmoni mi si riempiano di sangue al più presto. Prima, almeno, che questo pazzo e la sua dolce metà, possano aver modo di sperimentare su di me la Vergine di Norimberga che avranno di sicuro chiusa in cantina.

“Donne… “, penso mentre il fiato mi si accorcia. “Sempre a innamorarsi dei delinquenti, senza nessuna fantasia!”

Patty, intanto, intona Pensiero stupendo.