Dormo poco.
Mangio meno.
Ho anche problemi con l’alcool. Ultimamente cerco rifugio là. Purtroppo funziona e anche bene, devo dire.
Aridità assoluta.
Non provo più niente, nemmeno il dolore che cerco di provocarmi con serietà, metodo e applicazione. Come quest’ultimo: tre mesi fa Daniela mi ha lasciato. Dopo cinque anni che stavamo assieme è sparita.
Dovrei soffrirne come un pesce rosso fuori dal vaso.
Invece?
Invece non me ne frega più un cazzo!
Ecco, l’ho detto.
Per la verità – un paio di settimane fa – ho chiesto un po’ in giro. Sì, non lo so nemmeno io perché, ma ho domandato a suo fratello Roberto se avesse un altro. Lui non ha esitato. Mi ha detto di sì. Senza alcuna pietà.
Sono rientrato a casa e mi sono fatto una birra.
Anzi, due.
Stasera, stasera sto peggio del solito.
Se non mi bruciasse lo stomaco, direi che sono già morto e sepolto!
Ma tanto, peggio di così.
Manca solo che inizi pure a puzzare di marcio…
Che dici? Mi faccio un’altra birra?
O esco?
Birra-esco-birra-esco-birra-esco…
Prima la birra, e poi esco!
Massì, qui mi manca l’aria: ho bisogno di rumori, di rumori forti, per non sentire quello che mi scricchiola tutti i giorni nel cervello.
E non ci penso più.
Ecco, sono per strada. E’ notte, l’aria è umida di pioggia. Il temporale frusta il parabrezza,
il finestrino dell’auto è aperto quel tanto che basta per far uscire il fumo della sigaretta e non morire soffocato.
Giro a vuoto per un po’.
Apatico.
Tra l’altro è pure sabato sera, e se c’è una cosa che odio io è proprio il sabato sera: un’orda di bisonti microcefali determinati a divertirsi a tutti i costi.
Che, poi, negli ultimi cinque anni, avevo completamente risolto il problema del sabato sera: pizza e cinema, o cinema e pizza. Una chiavatina due volte al mese.
Rapido e indolore!
Tavolo per due, quattro al massimo, con altri due imbambolati a chiacchierare di inutilità ed episodi “divertenti” capitati sul lavoro, che – per quanto si sforzino – non mi hanno mai fatto ridere, e io sì che ce l’ho il senso dell’umorismo. Sono il campione mondiale di senso dell’umorismo: mi fa ridere pure Renato Pozzetto a me!
Comunque – per stasera – c’ho anche provato a chiamare qualcuno, ma niente.
Tutti presi, tutti indaffarati a sentirsi ancora giovani e belli.
Embè, dovevo aspettarmelo: torni in vita dopo cinque anni, e pretendi che tutto sia rimasto uguale, che tutti siano uguali… che il tempo non sia passato, che arrivi al bar e trovi le stesse facce, gli stessi amici ad aspettarti per l’aperitivo… capita a volte. Come quelli che tornano giù da Milano a Natale o Pasqua, e ti chiedono: Allora? Che si fa stasera?
Io stasera me ne rimango a vedere la televisione… tu non lo so.
Cioè non è che qua stiamo tutti ad aspettare proprio te che torni dalla Linea Gotica per andare a divertirci. E se non ti sta bene, puoi benissimo tornartene da dove sei venuto!
Beh… se proprio non c’hai un cazzo da fare – e non sei particolarmente scoglionato da lavoro, mogli o fidanzate – alla fine, una sera o due, te li porti pure appresso per un po’.
Sì, capita alle volte. Ma a me no.
A me – stasera – non mi fila proprio nessuno!
Se continuo così penso di arrivare ad un limite di non ritorno.
Mi lascio guidare distratto dalla fiumana di macchine che si rintuzzano borbottando ai semafori. Alla fine della Variante scorgo un’insegna al neon. È il Flanagans. Ci venivo. Ci venivo da prima… da prima di Daniela.
Magari non è cambiato.
Magari incontro qualcuno che mi conosce. Che mi ri-conosce e mi sa dire pure chi sono, magari.
Per strada avvisto una fetta di marciapiede libero sotto un ponte. Sul lato opposto – appollaiati su un muretto basso riparato dalla sopraelevata – se ne stanno tre o quattro macachi di provincia, imbacuccati dentro grossi piumini neri stretti in vita da un elastico. Li vedo indaffarati a fumarsi chissà che cosa da una bottiglietta di plastica e una cannuccia: sembrano gli abitanti di una favela brasiliana delocalizzata ad Aversa. Sto bene attento a non guardarli. Non mi va di avere pure rotture di coglioni stasera.
Parcheggio la macchina. L’aria è fredda ed ogni tanto scende qualche gocciolone pesante come il fanale di un camion che mi centra in pieno la testa, ma tanto sono vestito pesante e non ne risento: tiro dritto.
Mi avvicino all’ingresso, in fila ci sono già una quindicina di persone, però – ahimè – non c’è nessuno che conosco. In meno di un minuto finisco stretto da una mandria di gigantosauri decelebrati che mi spingono ai cancelli come un’allegra combriccola di metallari ad un concerto rock.
Sballottato da questa marea umana che si muove a ondate, riesco faticosamente a guadagnare la porta del locale.
Giunto sull’ingresso, mi si para davanti un tipo grosso con i capelli biondi tagliati a spazzolina e due spalle enormi. Ha un paio di occhiali da sole ancorati sulla fronte e, ai piedi, dei Camperos di pitone. Lo guardo e mi fermo all’istante, come se fosse scattato il rosso. Il buttafuori col mento squadrato mi indica un cartello dove ci sta scritto a caratteri cubitali, nero su bianco: “INGRESSO RISERVATO ALLE COPPIE”.
Io mi impalo sull’orlo della scaletta d’acciaio, in bilico sul primo gradino. Il mio sguardo appiattito passa dal cartello al gorilla biondo e viceversa. E mi ritorna tutto a galla, e gli angoli della bocca mi si inchiodano all’ingiù.
Coppie, rileggo.
Come se fosse facile!
Incontrarsi, innamorarsi, mantenere vivo un rapporto. Puntualità, ruoli definiti: accarezzami qui, baciami là…
Coppie…
Come i miei due nomi del cazzo – Giovanni Maria –, che rimangono lì, attaccati con lo sputo!
Le coppie sono solo un’altra patetica illusione. Perché una persona non ti apparterrà mai, per quanto tu possa averle detto e fatto, per quanto tu possa averla amata. E, alla fine, se ne andrà sempre. Inesorabilmente.
E allora rimango lì, a fissare quel cartello e faccio finta che il fatto non sia il mio. Mi sento quasi rassegnato. Mi guardo intorno, guardo le luci colorate dell’insegna al neon che mi accecano proprio come quando era Daniela ad accecarmi, a non farmi vedere il resto intorno. Ma è solo una allucinazione…
Provo a fare l’indifferente, ma so già che sul viso mi si è dipinta un’espressione avvilita, da merda pestata. Sto per girare i tacchi e sparire, quando mi sento afferrare per un braccio: “Ehy, Amore! Ma dove eri finito?!”
Mi volto di scatto e me la ritrovo davanti: è alta, magra, con le tette grosse e i capelli biondi. Per il momento non riesco a vedere altro. La mia attenzione si concentra soprattutto sulle tette, lasciate scoperte dall’impermeabile verde smeraldo. Che ci devo fare?!
Rimango in uno stato vicino a quello catatonico per almeno dieci secondi. Poi con un risucchio aspiro quel filo di bava che – sono sicuro – mi sta scivolando di fianco al labbro inferiore, giù per il mento reso ispido da una barbetta di tre giorni.
E’ lei a togliermi dall’imbarazzo del momento: “Andiamo!”, mi dice tirandomi per un braccio, e si fa largo nella ressa. Il buttafuori si sposta di lato, e io ho pure il tempo di notare nel suo sguardo un pizzico di invidia.
Stronzo: così ti impari!
Fossi meno scazzato, gli farei anche l’occhiolino. Ma, oltretutto, sono sempre un gran signore. E vaffanculo.
Passando per la porta a vetri dell’ingresso ci incamminiamo sul pavimento al neon tempestato di mozziconi di sigarette. Mi guardo attorno spaesato e noto che tutto è ancora come lo ricordavo, forse anche peggio: le luci, il fumo e le bombe degli altoparlanti che mi pulsano a tutto volume nel cervello e mi squassano la gabbia toracica. Mi sento intrappolato in una situazione claustrofobica e manca poco che inizi a boccheggiare: non c’ho più l’età per questo genere di cose!
“Scusa – mi fa lei appena usciamo dal raggio d’azione del buttafuori all’ingresso – è che un amico che mi aveva dato appuntamento non è ancora arrivato, e non mi andava di stare lì fuori alla pioggia ad aspettare. Ah, io mi chiamo Rita…”, e mi allunga una mano con cinque dita lunghissime laccate di bianco.
Io ci provo, giuro su Dio che ci provo a guardarla in faccia, ma proprio non riesco a staccarle gli occhi dal seno alto e sodo. E la profonda scollatura a V di quell’abitino nero che la fascia stretta come un guanto da chirurgo, proprio non mi aiuta. E anche se non riesco a vederle il culo, incartato nel cappottino verde, sono sicuro che mi piacerebbe un sacco.
“Piacere… Gio-Giovanni-Maria…”, miagolo. E, alla fine, riesco pure a centrarle gli occhi con lo sguardo. Sono blu.
“Giovanni Maria?”, ride portandosi una mano alle labbra tonde e rosse come due ciliege al maraschino. “Troppo lungo, scegli: o Giovanni o Maria!”, e ci da dentro a ridere ancora di più.
Io la guardo spiazzato. Non so se incazzarmi e mandarla a fare in culo, o stare al gioco. Alla fine lascio decidere alle tette e inizio a pensarci un po’ su: Maria? Naaaa… meglio Giovanni allora!
“Giovanni”, sussurro e abbozzo un sorriso, sancendo di fatto un’altra separazione legale nella mia deludente vita.
“Ok Giovanni! E’ stato un piacere conoscerti…”, e si gira per andarsene.
Le lancio un’occhiata da miserabile che le trapassa la nuca.
E’ la seconda volta che ci rimango di merda stasera.
“Ehm…”, farfuglio tirandola per un braccio. Lei si volta e mi scruta con un sopracciglio alzato. “Vai già via?”, la butto là, avvicinandomi al suo orecchio, per superare il muro sonoro che ‘sto stronzo di D.J. sta tirando su da quando sono entrato. Profuma come un mazzetto di viole.
“Te l’ho detto… aspetto un amico”, si schermisce.
Non mollo.
Stasera non mollo.
Non sono più catatonico: mi sento come se qualcuno mi avesse sottoposto a una doppia seduta di elettroshock.
Sono stato troppo a lungo in vacanza dal mio pisello: Daniela; i suoi amici ritardati; i week-end a Roccaraso; il sesso-un-sabato-sì-un-sabato-no; la birra; il bruciore di stomaco, mi hanno rubato il fiore della gioventù. Ma sarà la musica, sarà il tiretto di coca che mi sono fatto prima di uscire, saranno le tette (probabilmente quelle!), la mia libidine è tornata a livelli da gladiatore romano. Sono una belva assetata di sangue stasera!
E poi Rita è una donna stupenda: ha due gambe lunghissime, bionda, alta e slanciata, fisico perfetto. Un faccino da ragazza per bene e lo sguardo da zoccola. Cosa si potrebbe desiderare di più?
Cerco di superare un silenzio agghiacciante come un sudario: “Non ti andrebbe di bere qualcosa assieme?”, le dico con invidiabile nonchalance, da manuale del perfetto seduttore metropolitano. Almeno questo – nonostante i cinque anni di oblio – non me lo sono scordato. “Mentre aspetti il tuo amico…”, provo ad insistere. Un suo NO, in questo momento, mi brucerebbe più della spugna imbevuta di aceto sul costato di Gesù Cristo.
Lei rimane a riflettere qualche secondo. Nei suoi occhi scorgo il luccichio di un fuoco lontano: “E vabbè – mi dice alla fine – offri tu, però. Io non c’ho nemmeno il portafogli!”.
“Regolare”, rispondo allargandomi in un sorriso.
Mi sento come se mi avessero appena eletto Sindaco.
Lasciamo i capotti al guardaroba e – mentre ci avviamo al bar e la vedo sculettarmi a fianco sui tacchi alti – un brivido mi sale lungo la schiena e mi afferra la base del collo: lo dicevo io che c’aveva pure un gran bel culo!
Ora siamo al bancone.
Attorno bella gente, ben vestita. Mica il solito pubblico da cinema porno della domenica pomeriggio. Soprattutto giovani. Alti e magri. Coppie. Sicuramente ci sono diverse coppie qua dentro, tutte quante impegnate a fingere di amarsi e di divertirsi. E a credere che gli sia bastato, che il dolore se ne sia andato solo perché si sono mischiati al mondo per un attimo. Ma è solo un’altra illusione: non lo sanno cosa li aspetta!
“Che prendi?”, le chiedo.
“Un Margarita…”, risponde con tono affettato. “Adoro Sex and the city”, sorride.
Io no. A me fa cagare, ma sorrido pure io.
“Un Margarita e un Gin tonic!”, grido al barman, passandogli un biglietto da venti.
Scavalchiamo un gruppetto di impasticcati al centro della pista e ci sediamo su un divanetto viola davanti a un privet già occupato da certi fighetti in camicia bianca e Hogans di camoscio ai piedi. Lei inizia a parlare come un fiume in piena di fatti e persone a me completamente sconosciuti. Dopo due minuti già rinuncio a seguirla. Mi rendo conto di essermi messo in trappola da solo. La lascio parlare: fermarla è una cosa impossibile, specie per me che l’ultima conversazione seria che ho fatto è stata quella con la tartarughina Polly, prima di decidere di donarle la libertà attraverso lo scarico del cesso.
Mi limito ad osservarla e annuire distratto.
Chi l’avrebbe mai detto?!
Una logorroica, con una quarta abbondante…
Una specie di chimera: un essere mitologico, metà donna e metà giradischi!
Praticamente non ha toccato il suo Margarita, mentre io sono già al mio terzo drink. Mi infilo una sigaretta in bocca e l’accendo apatico: sbuffo una bolla di fumo che si impenna verso il soffitto, mischiandosi al vapore acqueo dei corpi sudati che si dannano al centro della pista. Mi sento intrappolato, so che non ne uscirò vivo. Sono in balia di questa situazione, impotente e completamente solo.
A saperlo che sarebbe andata a finire così, me ne sarei rimasto a letto tutta la serata a vedere la trilogia del Signore degli Anelli, in versione integrale e senza tagli!
Alla fine decido di rinunciare definitivamente all’idea delle tette e di quel culo, alto e sodo, e mi preparo a rispedirla da quell’amico che stava aspettando di fuori… anche se adesso inizio pure a spiegarmi perché non si sia fatto ancora vivo: se per una scopata devi farti liquefare i neuroni, allora è meglio darci giù di polso.
E che cavolo!
Mentre penso e ripenso a come fare per liberarmene, però, mi salta in mente un’idea parecchio perfida, ma che magari mi risolve la serata. Mi ricordo che – nella tasca della giacca – devo avere ancora un mezzo francobollo di acido, che mi ha lasciato Peppe Rohypnol, un paio di sere fa quando è passato a vedere se fossi ancora vivo.
Una specie di regalo di compleanno, con due mesi di ritardo, per quando – ha detto serio – le giornate diventano veramente, ma veramente dure.
Non sarà la “droga dello stupro“, ma poi io mica voglio violentarla? Magari solo farla salire un po’ di giri, e chissà riuscire finalmente a farla stare zitta.
Alla fine, sono sempre un gentiluomo!
Forse è un caso, forse non lo è, ma l’idea mi si materializza nella parte più maligna del cervello proprio nel momento in cui lei si blocca un secondo, si avvicina e mi sussurra all’orecchio: “Mi scusi un minuto? Devo andare in bagno…”.
Dio lo vuole, penso.
“Pregooooo…”, sorrido, e riprendo finalmente fiato.
Lascio che si allontani, mi guardo attorno con circospezione, poi quando è fuori portata, allungo una mano nel taschino e – con la rapidità di un caccia bombardiere – le ammollo il francobollo di acido nel bicchiere. Lo vedo sfriggere come una cucchiatata di bicarbonato e poi disintegrarsi nel liquido bianchiccio del drink. Mi rimpettisco sulla poltroncina e, con aria indifferente, rimango ad aspettare che finisca di incipriarsi il naso.
Dopo 10 minuti di orologio finalmente Rita esce dal bagno, torna a sedersi e, sorridendo, si beve tutto di un fiato il suo bel bicchiere di Margarita sex-and-the-city. Fa una faccia strana e in meno di un minuto, praticamente, si disintegra sotto i miei occhi.
Passa dal bianco, al blu tenebra, al rosso fuoco. Quindi inizia a ridere come una vecchietta isterica. “Ci siamo…”, rifletto con un sorrisetto perfido. Mi avvicino per sondare il terreno. Prima le sfioro le cosce con un ginocchio. Lei nemmeno se ne accorge. Allora, rincuorato, allungo una mano e l’infilo sotto la microgonna del vestitino. Lei sente le dita che le frugano l’attaccatura delle autoreggenti, mi guarda seria-seria, e scoppia di nuovo a ridere. Rido anche io e – con un’espressione complice – lascio che la mano scivoli un po’ più su.
La bacio.
Rita non si ritrae, anzi… mi infila in bocca dieci centimetri di una lingua dolce e guizzante come un salmone canadese. Sento il suo seno sodo sul mio corpo, la sua pelle di alabastro sotto la punta delle mie dita.
Limoniamo sul divano per un po’. La pressione mi sale come un canotto sul punto di scoppiare. Anche la vena che mi attraversa la fronte inizia a pulsare al ritmo di musica house.
Sto iperventilando, mi sento un toro nell’arena a cui abbiano infilato degli spilloni nei testicoli.
Mi alzo di scatto.
“Andiamo!”, quasi le ordino, tirandola per una mano. Lei mi segue inebetita. Ogni tanto scoppia a ridere: mi sa che proprio non lo regge l’acido!
Recupero i cappotti al guardaroba, la imbacucco, e l’infilo in macchina. La gente ci guarda e pensa che sia la solita troietta che ha alzato un po’ il gomito, e che domani mattina si sveglierà con un’emicrania che mezza accopperebbe un elefante. Io sorrido e ci ricavo anche la comprensione degli altri fidanzati.
Del suo misterioso amico, nessuna traccia.
Lo dicevo io!
Casa.
Sono riuscito a spingerla su per le scale e adesso è là, stravaccata sul divano: tiene le gambe aperte e una scarpa slacciata. Non mi sembra più così sexy e allora decido che è il caso di dare un’altra sterzata alla serata.
Tiro fuori un grammetto di coca che tengo di riserva in un barattolo del caffè in cucina, e sistemo due striscioline bianche e lunghe su uno specchietto che recupero dal bagno. Arrotolo un cinquanta euro, e mi sparo la prima metà di una striscia in una narice, metà nell’altra.
Cazzo che botta!
“Ritucciaaaaa… viene a prendere la medicina!”, rido.
Rita apre un occhio: “Wow!”, esclama avvicinandosi, e si tira su la sua bella striscia, come fosse un rappresentante della Folletto a una dimostrazione pratica per casalinghe disperate.
Riprende a ridere come un’ossessa, poi crolla sfiancata sul divano.
Mi avvicino: più la guardo e più mi piace. Dalla minigonna fuoriescono due gambe lunghe e sode. Questa qua la cellulite non sa nemmeno che cosa sia, penso soddisfatto. Mi siedo affianco a lei e inizio a baciarle il collo, afferrandole una tetta con la mano. Lei – con gli occhi serrati – sbuffa infastidita, poi, però, mi lascia fare.
Le sfilo il vestito: sotto ha un reggiseno nero, di pizzo leggero. Glie lo slaccio senza farmi troppi problemi. Due tette morbide mi esplodono davanti agli occhi: i capezzoli sono larghi e scuri, l’areola è un piatto da portata. Questo mi fa toccare ancora di più la nervatura. Inizio quasi a boccheggiare, sbuffo come un bufalo africano.
Lei sembra accorgersene appena…
Le sfilo anche le mutandine coordinate e le calze autoreggenti, buttandole sotto il divano senza troppi complimenti. Rimango a guardarla rapito: ha un corpo praticamente perfetto, magro ma morbido, giovane ma esperto. E poi liscio come un parquet di mogano.
Mi strappo di dosso la camicia e i pantaloni, mi stendo su di lei e respiro il suo profumo, sento la sua pelle morbida carezzarmi il petto peloso. È la serata più bella della mia vita: meglio del mio compleanno, meglio di quando abbiamo vinto i mondiali in Germania, meglio della testata a quella faccia di cazzo di Zidane!
Daniela, oramai, è solo un lontano ricordo, perso nella voragine del tempo…
La prendo con decisione, assestando dei colpi prima lenti e precisi, poi sempre più rapidi e sostenuti. Lei partecipa poco o niente, anzi, è praticamente inerte, ma la cosa non mi disturba, anzi. La sua passività mi esalta ancora di più.
Non devo preoccuparmi di fare bella figura, di accompagnarla lentamente all’orgasmo, di dilungarmi in noiosi e inutili preliminari, di dannarmi l’anima per cercare di capire quando cazzo è che è venuta (se è venuta!) e potermi finalmente dedicare un po’ a me stesso. Al mio piacere personale.
Roba vecchia! Roba superata!
Stanotte ho infranto il tabù dell’orgasmo femminile: dentro-fuori, dentro-fuori, dentro-fuori. Quattro, cinque volte al massimo e raggiungo il massimo del piacere col minimo sforzo.
Grazie e tanti saluti!
Crollo soddisfatto sul lato del divano.
Afferro una bottiglia di Vodka sul tavolino di cristallo, al centro del soggiorno, e mi ci attacco, buttando giù un bel sorso.
“Aaaaaaahhhhh!!”, esclamo con uno sbuffo e mando giù un’altra boccata bella piena. Poi sento la testa pesante e frano su un bracciolo.
Mi risveglio dopo un paio d’ore con l’impressione di essere stato riesumato da una cassa da morto. Sollevo una palpebra e una lama di sole mi trafigge la pupilla. Mi sento la lingua gonfia come un canotto. Sposto appena la testa: il dolore è così intenso da lasciarmi senza fiato.
Dopo qualche minuto, riesco a guardarmi un po’ in giro.
Rita è ai piedi del divano, immobile e a faccia in giù. Devo averla sbattuta a terra nel sonno e nemmeno se ne è accorta.
Mi avvicino e la scuoto un po’.
“Rita…”, le sussurro dolcemente in un orecchio.
Niente.
“Rita!”, abbaio a voce alta questa volta.
Niente.
“Cazzo!!!”, esclamo.
La rivolto sulla schiena come una tartaruga, mi avvicino al suo petto. Le sue bellissime tette sono immobili: non respira.
“Cazzo-cazzo-cazzo!!”, urlo disperato. “Questa ci è rimasta!”
“Ritaaaa! Ritaaaaaaa!!!”, grido scuotendola per le spalle come una maracas.
Niente, nessun movimento, nessun segno di vita.
Lo dicevo che non lo reggeva l’acido: mi è finita in overdose, merda!
E adesso?
Adesso che faccio?!
“Cristo Santo, sono fottuto!”, esclamo girando a vuoto per la stanza come un disperato. Tirando calci alle scarpe e buttando giù a pugni i soprammobili dalle mensole. Poi sento una fitta alla pancia: la colite mi si è risvegliata. Pure questa. Ho appena il tempo di correre in bagno, e spruzzo diarrea come un idrante.
Ritorno in soggiorno – dopo cinque minuti – con due litri di liquidi in meno per il corpo, e una gran confusione in testa.
Rita è ancora là, sul tappeto rosso: ha un colorito solo leggermente livido, come quando – durante l’ora di disegno – provi a stringerti la punta del pollice con un elastico, ma per il resto è una vera bellezza. Le tette sono sempre le stesse, coi capezzoli che puntano dritti alla luce del sole; le cosce ancora lisce e morbide e nemmeno troppo rigide per una morta.
Seguo il filo contorto dei miei pensieri, e mi sorprendo ad eccitarmi di nuovo.
Mi avvicino. Le carezzo i capelli biondi, le labbra morbide e solo leggermente cerulee. Le sfioro il collo con due dita, il seno, l’incavo dell’inguine. Cerco di riscaldarla per induzione, avvolgendola con tutto il mio corpo. Alla fine non resisto e provo a penetrarla, ma mi sembra di infilarlo nella carta vetrata.
Con la morte – rifletto – ogni secrezione corporea si è interrotta irrimediabilmente, compresa quella vaginale. Ma io sono il più grande fan vivente di Marlon Brando e ho visto almeno diciotto volte l’Ultimo Tango a Parigi, così corro in cucina. Recupero il burro dal frigo e tutto, adesso, fila via liscio come l’olio.
Pardon, come il burro!
Facciamo di nuovo all’amore, io e Rita. Una, due volte…
Tutto è bellissimo, meraviglioso, come l’ho sempre sognato: ho finalmente trovato la donna della mia vita, penso al settimo cielo.
“Rita, io ti amo…”, sussurro al corpo lucido della mia sposa.
“Staremo insieme per sempre, e tu non mi abbandonerai mai: ti laverò, ti vestirò, staremo tutto il pomeriggio sul letto a vedere la televisione. Solo calcio e film di guerra, però, e tu non vorrai vedere altro… non ti servirà altro. Niente soap opera, niente film d’amore: non metterai mai le mani sul telecomando.
Oh, sì, io ti amo Rita!”
C’è solo un piccolo problema da risolvere, ma ho già una mezza idea di come fare.
Afferro le Pagine gialle dal portariviste, le apro alla voce elettrodomestici, e compongo un numero di telefono: “Sì senta, vorrei un frigo-congelatore. Sì, il più grande che avete per favore… Ok, va bene questo. Sì, qualsiasi prezzo… me lo consegnate a casa in giornata? Benissimo: via Mercatale numero 8. Grazie e a presto”.
Riattacco.
“Sentito amore mio? Staremo assieme per sempre, sarai la mia piccola, bella addormentata, e io verrò a svegliarti ogni mattina con un bacio…”.